Una conflagrazione pittorica. Testo di Manuela Bartolotti, 2019

Con Paolo Manganelli non si entra in una mostra, ma in un territorio interiore dove ragione, emozione, visione si connettono a formare un tessuto di geometrie di luce e colore, realtà oltre la realtà, quanto va oltre la fenomenologia delle cose, per farsi respiro dell’esistente, spazio che si schiude in una progressione infinita, in sfumature che rimandano l’una all’altra con casualità solo apparente, in realtà logica, determinata e naturalissima. Allora come si combina questa astrazione al sensismo e all’empirismo lirico di Pierluigi Bacchini? L’incontro è nell’eco tra i versi, nei riflessi tra piante e cielo, negli effetti di rifrazione che restituiscono percorsi inspiegabili ma seducenti, magici, grondanti vita. Sono respiri e canti, evoluzioni celesti che lui riformula e dimensiona in atmosfere prismatiche, in note cromatiche, parole reincise col pennello.
Sono il verbo celato del mondo, quello intuito dai Simbolisti, da Verlaine e Baudelaire, ma anche da Paul Serusier, Odilon Redon e in musica da Debussy. Da lì in poi le arti si sono fuse e confuse, fino all’astrazione, dove i versi esplodono in ritmi di forme geometriche e colori. Ed è un progressivo schiudersi, rigenerarsi, un loop vitale, dove nulla è distinguibile, ma tutto percepibile. Come scrive Umberto Eco in “La definizione dell’arte”: “L’ineffabile non appare nel tessuto dell’opera analizzata, ma l’opera analizzata ci fornisce l’intelaiatura di una macchina generatrice d’ineffabile”. Non si descrive più, si restituisce lo schema, la struttura del reale, la mappa per l’inesprimibile, la mappa dei voli.
Il suono si fa parola in Pierluigi Bacchini, il suono si fa pittura in Paolo Manganelli. Ed è il suono della natura, sa di vento e di ali, di gorgheggi e richiami, dell’intimo invisibile crepitare di linfe e radici, fruscii, silenzi fradici d’attesa, note sospese tra terra e cielo, come le foglie, come la vita.
Allora la scienza si fa poesia e la poesia si dispiega nel canto e nel colore. Manganelli la traduce sulla tela, come fece Kandinskji con la musica di Schonberg o Constantinas Ciurlionis con le sue composizioni esoteriche, piene d’incanto.
Lui dichiara d’ispirarsi anche alla musica aleatoria (casuale come il lancio di dadi – da alea in latino che significa dado) e in particolare alle notazioni musicali di Cornelius Cardew che riprende sulle tele attraverso segni grafici, ma anche idealmente con l’aspirazione a riprodurre in pittura l’andamento d’ispirazione-improvvisazione imprevedibile di questa musica che tocca dimensioni sconosciute.
Così come in Bacchini (sorta di medium per questa scoperta dello spazio non più e non solo esteriore) la ricerca linguistica, l’elaborazione del verso, in Manganelli la sua astrazione “aleatoria” va all’essenza delle cose per farsi sensazione del molteplice, restituendo infine la percezione dell’arcano dell’esistenza.
Quasi inevitabile lo scorgere dinamiche futuriste nelle composizioni caleidoscopiche e articolate di linee che si slanciano danzando in multipli crescendo sonori di tinte. Ma non è la velocità, la modernità, la corsa, la macchina, la meccanica, la forza centrifuga di Sironi o di Delaunay. Piuttosto le linee di fuga si raccordano dentro, in un flusso entropico, s’incanalano nei percorsi insondabili della memoria e d’una memoria ancestrale; le note e i cromatismi, solo apparentemente casuali, sono propaggini sonore senza tempo, echi originari, così come le vibrazioni dei colori. E’ qualcosa di tanto concreto quanto impalpabile, tanto in trascorrere quanto quieto, senza sforzo come l’acqua del ruscello, lo stormire delle fronde, l’alternanza di sussurri e gridi. E si fa geometria quest’universo, propagarsi di onde musicali dipinte affioranti dalle suggestioni dei versi di Bacchini a loro volta scaturiti da un’osservazione attenta, quasi entomologica, dove l’empatia è proprio nel compenetrarsi di suono e colore, divenendo essenza intimissima delle cose: “un gracidio di luna,/ verde marcio” oppure “dopo la pioggia/ cielo a pezzi, vetri/ sul terrazzo, anche alberi/ come nero di blenda”.
Si tratta per entrambi di poesia e pittura non facili all’analisi, all’approccio razionale, ma semplice alla percezione finale se vi s’accosta ingenui, ricettivi, pronti allo stupore, come in una continua apparizione e rivelazione. Nel grande è il piccolo e nel piccolo il grande, intersecarsi di macrocosmo e microcosmo, di dentro e di fuori. Bisogna ascoltare per vedere questi voli (Mappe dei voli). E vedere per sentire questi canti (Canti territoriali). Come scrive il poeta: “Le parole del mondo: una conflagrazione pittorica”.

Testo di Manuela Bartolotti

Canti Territoriali for Pier Luigi Bacchini. Testo di Daniel Buso, 2018

Da Cézanne a Kandinsky e Mondrian l’Arte in Europa si trasforma abbandonando la strada sicura della verosimiglianza ottica che aveva raggiunto l’apice di realismo con la linea impressionista. È l’epoca delle Avanguardie, dei moti rivoluzionari in campo artistico che scuotono il continente e portano le espressioni artistiche a toccare vette mai esplorate. L’Astrattismo sembra diventare un dogma e tale resterà per molti decenni fino ad un debole ritorno al figurativo negli anni ’80 e ’90 del 1900.
Oggi le vicende estetiche non sono più esplorabili con criteri storico-critici netti. Ad ogni artista la sua opera; ed il suo stile! Nell’esplosione di creatività contemporanea la prospettiva storica sfugge ed ogni caso appare isolato. Eppure ci sono numerosi artisti che, desiderosi di far parte di coordinate specifiche, si riallacciano a tradizioni ormai antiche nel tentativo di esplorare territori già battuti per produrre qualcosa di nuovo, senza smarrirsi nel caos dalle infinite possibilità che è il tempo in cui viviamo.
A questo folto gruppo di artisti appartiene Paolo Manganelli, un artista capace di far rivivere la linea modernista producendo senza sosta immagini che riportano alla nostra memoria diverse correnti; dalle più figurative esplorazioni del post-impressionista Delaunay, al Cubismo e all’italianissimo Spazialismo che produsse la penultima grande generazione di artisti prima dell’Arte Povera. Le composizioni di Manganelli strizzano l’occhio anche alla linea dell’astrattismo lirico che ebbe in Kandinsky il suo più grande interprete. Linee, flussi di colore pazientemente stesi per seguire l’immaginario spartito di una composizione musicale che sembra aver guidato l’artista durante la creazione. Ne consegue un tipo di produzione sinestetica in cui arte figurativa e musica potrebbero accompagnarsi per ricreare la dimensione di opera d’arte totale, secondo i principi stabiliti da Wagner e ripresi da Kandinsky, appunto.
Le masse pittoriche del nostro pittore si muovono apparentemente libere sulla superficie della tela, salvo poi ricomporsi sempre in costruzioni armoniose in cui ogni singolo orpello ha una sua collocazione giusta che appaga il nostro occhio.
L’opera esposta durante l’ottava rassegna di arte contemporanea è stata pensata e realizzata da Paolo Manganelli appositamente per l’occasione. Partendo dai presupposti teorici delle avanguardie d’inizio Novecento e sostenuto da un idealismo di fondo secondo cui l’Arte è strumento imprescindibile per la trasformazione del mondo, l’artista ha strutturato una composizione caratterizzata da modulazioni spaziali parzialmente cubiste destinata a costituire uno spazio astratto. Tale spazio è stato definito dall’artista pensando allo stile poetico di Pier Luigi Bacchini, con il cui modo di procedere Manganelli sente una sintonia pressoché totale. L’universo bacchiniano è popolato da forme fluttuanti e policrome, che spiccano per vivacità e colore sulla sfondo di un paesaggio primordiale. E così procede il flusso creativo di Manganelli con segni che si strutturano nello spazio. Tali forme sono caratterizzate da una profusione di colori che ambiscono a costruire o, più semplicemente, a immaginare, un mondo nuovo e ambizioso.
L’appagamento estetico che ne consegue e il senso di pace formale che respiriamo finisce per evidenziare il senso stesso dell’arte astratta. Ovvero il tentativo eroico di ricreare costantemente il mondo, al di là delle mere percezioni, per consegnare all’osservatore non soltanto un messaggio visivo fine a se stesso ma un messaggio sociale e politico finalizzato alla trasformazione del mondo reale. Tale trasformazione è possibile solo attraverso una paziente destrutturazione a cui fa seguito la ricostruzione dalle macerie. Ciò che è stato visto è già stato metabolizzato e non esiste più sulla tela. Quello che noi arriviamo a vedere è dunque un futuro che si sta definendo e che ci aspetta al di là delle illusioni superficiali.

Testo di Daniel Buso

Arcipelaghi. Testo di Sandro Parmiggiani, 2016

In esposizione, una decina di opere a tecnica mista su tela o su cartone intelaiato, oltre ad alcuni polittici, tutti realizzati dal 2014 al 2016. Dipinti in cui si alternano campiture uniformi e sfumature, ma anche effetti materici, ottenuti a partire dai fondi trattati a stucco o da carte incollate e successivamente rimosse.

«Paolo Manganelli – scrive Sandro Parmiggiani – ha disseminato, nelle opere in mostra, indizi su quelli che sono le esperienze artistiche cui ha volto lo sguardo, per nutrirsi di suggestioni affini al suo immaginario e alla sua sensibilità, rivisitando alcune stagioni della pittura italiana e internazionale del Novecento. Da un lato, ecco le forze dinamiche che si oppongono e, più spesso, dentro vortici e tangenze, arrivano a trovare un’armonica sintesi di forme e di colori, proprie dell’opera di Giacomo Balla – quasi realizzando i propositi contenuti nel Manifesto della Ricostruzione Futurista dell’Universo (1915) di Balla e Depero: “Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile”. Dall’altro, ecco riemergere la memoria di alcune delle esperienze dei “padri fondatori” dell’arte del secolo scorso (tra gli altri, Kandinskij, Mondrian, Léger, Larionov, Gončarova): stagioni felici che sarebbero state rielaborate, in nuove versioni creative, verso la metà del Novecento, da alcuni artisti del Gruppo degli Otto (quali Afro Basaldella, Renato Birolli, Giulio Turcato), e da Mauro Reggiani e Luigi Veronesi, protagonisti assoluti dell’astrazione italiana. Altre piste di lettura, come il titolo di Pitecantropo e l’insistito fulgore del colore rosso, ci indicano che Manganelli è affascinato dalle fantasie sull’ominide primitivo, vissuto in un’età antichissima, tra il Pliocene e il Pleistocene (dunque, tra 5,332 milioni e 11.700 anni fa), il quale già aveva assunto una postura eretta e conosceva e dominava il fuoco».

Testo di Sandro Parmiggiani
Galleria 8,75 Artecontemporanea di Reggio Emilia, dal 12 novembre al 7 dicembre 2016.

Testo per opera “RISoluzione OTTO”, 2015

(…)il lavoro di Paolo Manganelli potrebbe sembrare un semplice esercizio di significativa abilità. Ma, se non altro perché abbiamo appena varcato la soglia del Millenio, tratteniamoci qualche momento sul valore mutato della parola paesaggio, parola che il ventesimo secolo(…) ha contribuito a limare, a erodere, infine a calpestare, fino a mutarne profondamente il significato(1). (…)ora la nostra responsabilità è dare ordine ai frammenti che ci sono stati lasciati, perché abbiano ancora un significato, o ne assumano uno nuovo, magari con la necessaria lentezza. Voglio leggere nelle sequenze di Paolo un’organizzazione attenta, ancora eroicamente ritmica, delle cose, di ciò che sta intorno a noi, in cui anche l’aberrazione è ricondotta a un tessuto di cellule armoniche e nuovamente feconde (2).(…) i suoi colori decisi formano una sorta di geometria astratta sul supporto dove trame e contorni paiono combinarsi in un racconto della memoria, che si compone e scompone (3). (…) lo specifico linguaggio si pone anch’esso come narrazione, suono, creatività. E’ il mondo di Manganelli che si apre alla scoperta(4), (…) che ha dato forma ad un intenso gioco di cromie(5), (…) per giungere alla comprensione di un linguaggio che è andato affinandosi senza mai rinnegare se stesso (6). L’incanto artistico è ineffabile, è un respiro profondo, è il rapimento della percezione, è l’emozione più pura. I colori si appropriano di una vita interiore e comunicano, sussurrando(7) . (…)Dalla sensazione all’emozione, dall’idea alla realizzazione. Il progetto permane come significato, il colore diventa significante di un discorso poetico che inebria e ammalia (8).
(1/2) “dare ordine ai frammenti” di Paolo Zermani dal catalogo mostra Suoni inesistenti 11/2000-02/2001. (3/4/5/6) “geometrie del pensiero di paolo manganelli” di Stefania Provinciali, Gazzetta di Parma 19/02/2013 per mostra Translation Octet . (7/8) “proiezione temporale” di Alessandra Battioni per Translation Octet.

TRANSLATION OCTET, 2013

Mostra di pittura di Paolo Manganelli 10 opere mono misura, 1 totemico e 1 grande tela

L’incanto artistico è ineffabile, è un respiro profondo, è il rapimento della percezione, è l’emozione più pura. I colori si appropriano di una vita interiore e comunicano, sussurrando. Si crea l’Arte, intesa come soggetto indipendente, come sinfonia, come linguaggio. Dalla sensazione all’emozione, dall’idea alla realizzazione. Il progetto permane come significato, il colore diventa significante di un discorso poetico che inebria ed ammalia. L’opera d’arte, offrendosi per la contemplazione, ci concede la possibilità di esplorare un mondo esclusivo in costante evoluzione, quello del nostro Io. Non resta che farci trasportare.

Testo di Alessandra Battioni
…tra Milano e Fontanellato , gennaio 2013

Testo critico apparso a lato dell’opera “POETICA ’52. For november”, 2006

di Tiziano Marcheselli Diret. Pagina dell’Arte della Gazzetta di Parma , sul Calendario Verso dove… orizzonti di un territorio

Come si potrebbe definire la pittura di Paolo Manganelli, questo quarantenne nocetano, già allievo di Mauro Buzzi al “TOSCHI”, impegnato nella stesura di grandi superfici a mosaico ondulato? Forse “POST CUBISMO astratto , filtrato attraverso una POP mediterranea”? O forse “Geometrismo astratto, costruito mediante campiture piatte su tracce organiche”? Ma una definizione specifica, una dichiarazione di poetica sono superflue, perché sono la libertà del movimento e la velocità delle forme a caratterizzare una pittura senza confini.

Testo di Alessandra Battioni
…tra Milano e Fontanellato , gennaio 2013

Testo critico in riferimento all’opera “SUONO”, 2000

di Paolo Zermani Architetto

Dare ordine ai frammenti.
Se si trattasse soltanto di un esperimento sul corpo maturo di Paul Klee , maestro al quale lo legano densi rifermenti concettuali , il lavoro di Paolo Manganelli potrebbe sembrare un semplice esercizio di significativa abilità. Ma , se non altro perché abbiamo appena varcato la soglia del Millenio , tratteniamoci qualche momento sul valore mutato della parola paesaggio , parola che il ventesimo secolo appena lasciato senza rimpianti , ha contribuito a limare , a erodere ,in fine calpestare , fino a mutarne profondamente il significato . Non esiste più un ultimo orizzonte , in senso leopardiano , inteso come orizzonte più lontano che l’occhio consente di vedere ,ma solo un ultimo orizzonte in senso numerico e progressivo , inteso come quello che è giunto dopo il penultimo , e dopo il quale ne giungerà rapidamente un altro e poi un altro ancora , con sconvolgente rapidità e rapacità , fino a restringere sempre più la prospettiva che l’occhio può osservare. Il secolo trascorso ha soprattutto , insomma , sottratto spazio e affida a quello appena iniziato il dilemma consistente nel fatto che questo spazio , dello sguardo dell’uomo , sta restringendosi rapidamente, forse finirà , inghiottito dalla follia degli abitanti del pianeta. Se Klee , cent’anni fa , aveva il problema di dare ordine al movimento , quel movimento incombente che avrebbe rappresentato la frenesia del secolo nascente , ora la nostra responsabilità è dare ordine ai frammenti che ci sono stati lasciati , perché abbiano un significato , o ne assumano uno nuovo , magari con la necessaria lentezza . Voglio legger nelle sequenze di Paolo un’organizzazione attenta , ancora eroicamente ritmica , delle cose , di ciò che sta intorno a noi , in cui anche l’aberrazione è ricondotta a un tessuto di cellule armoniche e nuovamente feconde . Certo , il cielo è costituito solo da frammenti e anche la terra è come un colossale lottizzazione dello spazio che ci consente di esercitare il punto di vista , l’osservare , solo attraverso cannocchiali obbligatori . Ma non è così il nostro paesaggio ? Di fronte a un quadro di arte contemporanea ognuno legge ciò che vuole , un destino triste , generalmente , per l’artista che ha sempre prodotto un lungo e meditato percorso . All’inverso Paolo ci parla di un suono inesistente , che sarebbe il suono risultante dalla lettura finale delle configurazioni geometriche , insomma ciò che ognuno ne deduce , quasi partorendo per conseguenza un proprio suono , nel caso della pittura una propria immagine . Credo che i “suoni inesistenti” rappresentati da Paolo Manganelli , indotti dalla sua scrittura figurativa , costituiscono l’estrema speranza di un nuovo paesaggio . La ricerca di un ordine ( il lavoro di Paolo è quasi ossessivamente didascalico ) mi fa ricordare che Casper Friedrich , forse il più grande fra i paesaggisti ottocenteschi , quando da queste parti Carmignani padre e figlio dipingevano i bei falò sui greti intonsi del Parma o del Baganza , eliminò gradualmente del tutto gli oggetti d’arredo del proprio studio , affinché non interferissero co la rappresentazione del soggetto paesaggistico . Per un artista che lavora oggi a pochi chilometri dalla Via Emilia e dal greto inquinato del Taro , al centro della Pianura Padana che è la zona più industrializzata del paese , è impossibile eliminare le interferenze . Ma l’arte , per fortuna , va oltre la vista , conosce la speranza della visione.

Paolo Manganelli

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